mercoledì 7 aprile 2010

DELOCALIZZARE I SERVIZI DI CALL CENTER?



Campagna nazionale contro le delocalizzazioni
nel settore delle TLC

Premessa

Il settore delle TLC continua a rappresentare nel Paese un settore ricco e non in particolare difficoltà, con margini di fatturato ampi (il primo semestre 2009 si è chiuso con una crescita del + 1%; dati Confindustria) e con una liquidità mediamente alta. Eppure come SLC-CGIL denunciamo oggi pubblicamente il comportamento delle grandi aziende (Telecom, Vodafone, Wind, H3G, Fastweb, BT Italia, SKY) in materia di esternalizzazioni e delocalizzazioni. Un comportamento sbagliato ed ingiusto, che recherà danni all’occupazione e – più in generale – alla qualità del settore.
In particolare, dopo una sommaria indagine e uno studio sui principali contratti commerciali in essere e in via di definizione, è evidente la scelta dei principali operatori (scelta inedita per quantità e qualità), di avviare nei prossimi mesi un processo massiccio di delocalizzazione di attività oggi lavorate in Italia. Una
delocalizzazione verso quei paesi (Tunisia, Albania, Romania in particolare) cui costo del lavoro è pari circa ad un quarto di quello italiano.

Inutile dire che tali lavoratori, in quei paesi, sono oggi privi di tutele collettive anche lontanamente paragonabili alle nostre, di un Contratto Collettivo Nazionale con minimi salariali dignitosi. E che in molti casi non vi sono quelle libertà sindacali minime come definite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Nello specifico, solo analizzando le politiche di delocalizzazione avviate dalle sette aziende sovra indicate, riteniamo siano a rischio nel breve periodo (anno 2010) circa tre/quattro mila posti di lavoro, con evidente sottrazione di volumi di attività all’intera filiera delle TLC.
Ed il tutto esclusivamente per aumentare gli attuali profitti a vantaggio degli azionisti, come risposta ad un calo dei guadagni, in un settore che genera comunque profitti e liquidità.
In particolare come SLC-CGIL denunciamo una politica non solo di esternalizzazioni di attività verso imprese di outsourcing italiane (Comdata, Almaviva, Teleperformance, E-Care, ecc.), ma - tramite subappalto delle stesse - verso aziende oggi operanti in Romania, Albania, Tunisia, Turchia, Sud America.
Una scelta questa sbagliata socialmente e industrialmente, in contraddizione con la produzione normativa dell’Autorita Garante per la Comunicazione (AGCOM) che, anche ultimamente, ha sottolineato l’esigenza di una maggiore trasparenza, una maggiore responsabilità delle imprese titolari di licenza, una maggiore attenzione alla qualità verso i consumatori (si veda per tutte la delibera n. 79/09).
Una scelta sbagliata socialmente in sé ma che si colloca oggi in un momento di difficoltà dell’economia nazionale con una delle più gravi crisi occupazionali degli ultimi decenni: il sistema delle imprese (soprattutto quelle che si basano su servizi avanzati, sulla capacità commerciale di fornire soluzioni
personalizzate, ecc.) dovrebbe salvaguardare i livelli occupazionali, eventualmente ripensando le politiche di esternalizzazione di volumi di attività, non certo incoraggiandole.
Una scelta sbagliata industrialmente, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni: le aziende oggi vanno delocalizzando la “gestione” dei clienti di fascia bassa e media, limitandosi alla gestione in house dei clienti top e a maggior capacità di spesa.
Poiché però il futuro del settore sarà sempre più dipendente dalla capacità di “alfabetizzare” all’uso delle tecnologie di comunicazione (sia fissa che mobile) fasce sempre più ampie della popolazione, con la trasformazione degli attuali terminali in veri e propri “portali” (per comunicare, fare impresa, qualificare il
tempo libero), rinunciare all’evoluzione dei consumatori medi in possibili “fruitori alti” di nuovi servizi e applicazioni, significa rinunciare alla crescita di nuovi e più avanzati modelli di consumo.
In Italia infatti occorre accompagnare un mercato ancora oggi ancorato sulla fonia, verso una maggiore capacità di utilizzo convergente degli apparati (dalla banda larga in mobilità, alla “casa e all’impresa digitale”, ecc.). Mettere “fuori” i clienti di fascia media (chiamati nei modi più diversi: 4 stelle, Silver, ecc.)
vuol dire ridursi i propri margini di crescita.
Soprattutto vuol dire una minore personalizzazione del servizio, una peggiore qualità nella gestione del contatto, una minore capacità di commercializzazione. Tutto questo con buona pace del cliente e delle sue prerogative.
Esternalizzazione di attività: una politica che è fallita.
Oggi la discussione nel settore dovrebbe essere indirizzata in senso contrario: la politica seguita in materia di esternalizzazioni è – piaccia o no – fallita.
E’ fallita la strategia di esternalizzare le attività in Telecom Italia (la madre di tutte le “esternalizzazioni”):
non vi è stata alcuna specializzazione produttiva, alcuna valorizzazione dell’occupazione ceduta. Non solo la qualità del servizio non è migliorata; non solo il rapporto costi/benefici si è dimostrato incongruente; non solo centinaia di cause legali hanno dimostrato anche la mancanza, in diversi casi, delle condizioni organizzative minime, ma le centinaia di posti di lavoro persi e la fragilità delle nuove imprese sono lì a dimostrare che il settore non è cresciuto andando in quella direzione.
E questo non riguarda solo Telecom: le difficoltà di aziende come Omnia, Agile, Phonemedia, Comdata, Almaviva e la stessa politica portata avanti da Teleperformance, E-care e Transcom (per non considerare la situazione delle imprese che operano negli appalti della rete) sono a dimostrare che la cessione di lavoratori ed attività (anche quando contrattata con buone clausole sociali e con buoni accordi) non risolve il problema di un settore che non ha ancora sviluppato una responsabilità sociale diffusa, una cultura della qualità e degli investimenti omogenea, una pratica relazione e sindacale in grado di tutelare l’intera filiera con regole uguali per tutti.
Lo scandalo delle imprese che riducono la forza lavoro ed intanto esternalizzano e delocalizzano.
Vi è poi uno “scandalo nello scandalo”. Da un lato assistiamo da parte di queste aziende (Telecom, H3G, BT) ad una politica di riduzione dei livelli occupazionali interni (tramite contratti di solidarietà, cassa integrazione, mobilità incentivata, ecc.) con forti sacrifici da parte dei lavoratori più sindacalizzati;
dall’altra vi è una politica di sistematica riduzione di attività fino ad oggi lavorate in casa (per esempio di Telecom) su cui potrebbero essere riconvertiti gli esuberi dichiarati.
Per di più secondo un modello che “stressa” le imprese di outsourcing con politiche sugli appalti basati al massimo ribasso, tanto da rendere difficile anche la stessa tenuta occupazionale negli outsourcing che sono - quindi - “invitati” a sub appaltare all’estero.

Insomma, siamo alle prese con una vera e propria strategia che rischia di:

a- ridurre le attività lavorate internamente dalle grandi aziende, riducendo i livelli occupazionali interni ed impedendo possibili riconversioni degli attuali occupati;

b- “stressare” con gare al massimo ribasso anche la parte finale della filiera, con outsourcing sempre più ridotti a divenire stazioni appaltanti di altre aziende (con fenomeni di sub appalto, che fanno perdere poi “le tracce” delle stesse attività di customer);

c- incentivare la delocalizzazione di attività a forte valore aggiunto, verso paesi dove le condizioni dei lavoratori sono drammatiche.

Il tutto per aumentare i margini di profitto, con grande danno verso tutti: i lavoratori dipendenti delle grandi aziende, i lavoratori degli outsourcing, i clienti finali (cui dati vengono lavorati presso aziende estere, con buona pace della qualità, della trasparenza, della tutela della privacy).
E questo in un momento di difficoltà del sistema paese, con centinaia di migliaia di disoccupati in più.

La nostre proposte

Per questo come SLC-CGIL ci mobiliteremo sia a livello di singola azienda (con comunicati e percorsi specifici) che di settore. In particolare per chiedere alle imprese, a ASSTEL, al Governo:
- una moratoria contro ogni delocalizzazione di attività di customer care e di lavorazioni di back office;
- il rispetto delle Delibere Agcom per noi, nei fatti, svuotate di senso dall’attuale politica degli appalti e dei sub appalti, a partire dalla delibera n. 79/09;
- un intervento di sostegno fiscale straordinario (soprattutto al Sud) mirato ai call center e più in generale alle aziende labour intensive;
- la definizione di un Avviso Comune che riconosca il valore della riconversione professionale dei lavoratori come prima vera tutela occupazionale, che recepisca clausole sociali chiare per l’assegnazione/cambio di appalti salvaguardando i livelli salariali, che sancisca tutele occupazionali minime in caso di cessione, che preveda la costituzione di un Osservatorio nazionale sulle attività in appalto, al fine di seguire le catene produttive in tutte le diverse aziende.
Osservatorio che potrebbe predisporre un Capitolato generale di appalto ”tipo” che si basi su responsabilità in solido delle imprese e parità di trattamenti economici e normativi tra lavoratori in house e lavoratori in appalto. Questo per distinguere tra vere operazioni di “specializzazione produttiva” e mere operazioni di contenimento di costi/licenziamenti.

Tratto da www.slc.cgil.it

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